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domenica 17 ottobre 2010

Un nuovo patto sociale?

C'era una volta un capitalismo che spremeva i lavoratori il più possibile pur di aumentare gli utili e dare legittime soddisfazioni a chi il capitale se lo era costruito con il sudore della fronte dei lavoratori piuttosto che con le mazzette, le frodi fiscali e le capacità manageriali.
I frutti erano abbondanti e se ne chiedeva una più equa distribuzione. Non fu sacrificio da poco per quei nonni e quelle nonne che allora erano donne e uomini i cui diritti umani di lavoratori non erano riconosciuti e non si parlava unicamente di busta paga, ma di rispetto della dignità umana in quella fase fondamentale della vita che è l'attività lavorativa. 

Lo Statuto dei lavoratori fu un riconoscimento dei diritti sul piano dell'essere e non soltanto sul piano dell'avere.

Ripatteggiare in deroga significa negare significato a un documento che interpretava mirabilmente l'articolo uno della Costituzione. 
E se neghiamo l'importanza del lavoro come valore fondante della nostra Repubblica, apriamo la strada alla rassegnazione e alla rinuncia.

Questo capitalismo neocolonialista di oggi preferisce sottrarsi alle regole che intralciano la strada del profitto in nome di diritti affermati in Italia e andare dove questi diritti non sono stati ancora affermati e quindi c'è campo libero per lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Non sarà per sempre, ma intanto si può speculare sul momento contingente, prima che nuovi movimenti come già si intravedono in Cina, restituiscano dignità di persone a lavoratori cui talvolta è negata persino l'identità personale.

E così paesi del sottosviluppo, anzichè essere aiutati ad uscire dal degrado, vengono sfruttati per carpire più lauti guadagni a favore di gente che non si fa scrupoli nel seguire qualunque strada vada in quella direzione in deroga a qualunque principio morale ormai dimenticato o considerato obsoleto.

Così le fabbriche se ne vanno e in Italia rimane il vuoto, alcuni buchi nel cemento dove prima erano allocate delle macchine. E gente che piange. 
Ora si comincia a dare un'alternativa: vuoi continuare a lavorare? Ok, devi diventare uno di loro, dimenticare i contenuti dello Statuto dei lavoratori e tornare alle non regole del capitalismo selvaggio. Altrimenti il lavoro è perso.

Il potere del capitalismo oggi non è più bilanciato dal diritto di sciopero, visto che l'unico che può essere messo in ginocchio è il lavoratore, con lo spettro della definitiva rimozione della fabbrica nella quale lavora.

L'esperienza insegna che il lupo mangia le pecore se può, fare un patto con il lupo è mera illusione. Negli anni 80 ad esempio si davano congrue esenzioni fiscali più contributi a fondo perduto a chi installava nuove fabbriche al sud. In molti casi una volta ottenuti i benefici le fabbriche venivano smantellate per traslocare altrove e i dipendenti perdevano il lavoro. Non se ne viene fuori senza una politica degna di questo nome. Non che la politica si possa fare carico del mondo del lavoro, ma degli equilibri sì, può farsi carico.
E poi il mondo del capitale non ha più patria, l'economia è globale e questo cammino è stato velocissimo. Non altrettanto veloce per il mondo del lavoro, ancorato alle realtà dei propri paesi e che difficilmente riesce a trovare una identificazione internazionale. 
Se il lavoro non ritrova la propria forza e la capacità di organizzarsi in una lotta non violenta , ma intelligente alle strutture di comodo che cercano il meglio per se stessi e non per la società globale, ci sarà un periodo non breve di grandi sofferenze prima di ritrovare un nuovo equilibrio. Le soluzioni non sono facili, ma appunto per questo la gente che lavora deve trovare nuove soluzioni per una lotta efficace senza ricorrere a facili ricette del passato tipo la nazionalizzazione delle aziende in crisi, che equivarrebbe a un suicidio collettivo. E più che altro non separarsi, non dividersi, come si è portati a fare quando la barca rischia di affondare.

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